EDGE FESTIVAL: GABRIEL DOMBEK CI PARLA DELLA REALTÀ MESSICANA

INCONTRO CON GABRIEL DOMBEK

 

IL SUO CINEMA-VERITÀ SUL MESSICO:

«UN GRIDO PER ATTIRARE L’ATTENZIONE, UN GRIDO D’AIUTO»

 

 

«CADUTO L’ALBERO OGNUNO CORRE A FAR LEGNA»

 

 

 

di Elisa Pedini

 

 

Oggi, in occasione della proiezione del docu-video “La terra degli alberi caduti” per la regia di Gabriel Dombek, docente di cinema e teatro presso la Alta Escuela di Città del Messico.

Le tematiche che tocca Gabriel sono denunce di una condizione di vita insostenibile in Messico.

Per tale motivo, ho deciso d’approfondire con lui il suo lavoro.

D’altronde, dirigere un periodico culturale e interculturale, significa questo, farsi ponte e rendere fruibile un’altra cultura, farla conoscere, renderla familiare.

Il detto che cito a inizio articolo, è un detto latino e oggi, italiano.

Tuttavia, è anche un detto messicano e dà origine al titolo del docu-video.

Un semplice detto. In Italia, si riferisce a chi ti volta le spalle nei momenti di difficoltà e cerca pure d’approfittarsene.

Ma, in Messico, si fa carico, anche, della sofferenza, del dolore e dell’indifferenza.

Infatti, conoscere una cultura non significa solo leggere libri e conoscere un’infinità di autori; ma anche entrare dentro gli usi, i costumi (e i mal-costumi), i valori, i drammi, i sogni, gli orrori, le lotte del popolo e della terra che danno origine a quella Cultura.

Gabriel Dombek è un uomo dallo sguardo acuto, ma sincero e buono, forse perché, in vita sua, ha visto molta sofferenza, molti orrori, nella sua terra: il Messico.

In più, ha un sorriso accogliente, disarmante e un’incredibile capacità comunicativa.

Il suo lavoro è scientifico, compatto, logico; ma è anche umano.

Evitando ogni sentimentalismo, Gabriel Dombek ci offre proprio questo: uno spaccato d’umanità messicana.

“La terra degli alberi caduti” parla dei “desaparecidos”, parla dei giornalisti uccisi perché hanno cercato la verità, perché hanno denunciato la corruzione.

Gabriel Dombek ci descrive una terra senza libertà di parola, di stampa, senza giustizia.

«È un documentario convenzionale nel senso più ampio del termine – dice Gabriel – Attraverso un nuovo linguaggio abbiamo parlato delle persone che scompaiono, in particolare, dei giornalisti.

In effetti, abbiamo iniziato a lavorare partendo proprio dai giornalisti, ma poi, con le persone scomparse ci siamo dovuti fermare.

Ogni argomento ne apriva altri.

I dispersi, il dramma dei familiari che non sanno più nulla, la tratta delle donne, il commercio dei bambini.

Ecco, tutti questi argomenti sono presenti in Messico in questa situazione di disgregazione sociale.

Inoltre, ci sono luoghi, in particolare il nord del paese, in cui la violenza raggiunge apici estremi.

Il governo non fa nulla.

Questo, è un grido per attirare l’attenzione. Questo, è un grido d’aiuto».

Infatti, in Messico, i cartelli della droga controllano tutto: il governo, le forze dell’ordine, le persone.

Hanno contatti con la malavita e il crimine organizzato di tutto il mondo.

Lo stato non fornisce supporto, anzi, nega, nasconde e si collude.

Molte delle vittime sono proprio dovute al governo e alle forze dell’ordine.

In Messico, la corruzione tocca il 90% e solo il 5% dei crimini vengono denunciati, con l’altissima probabilità di restare del tutto impuniti.

Oggi, si contano il doppio di persone scomparse delle dittature cilena e argentina messe insieme.

I giornalisti sono stritolati tra il governo e i narcos e il 98% degli omicidi e degli atti criminosi contro i giornalisti resta impunito.

Tuttavia, voglio sottolineare che l’impegno sociale di Gabriel Dombek non si esaurisce qui.

Gabriel ha iniziato venticinque anni fa a insegnare teatro nei luoghi di profondo disagio, per l’esattezza coi bambini autistici.

A tal riguardo, v’invito a pensare a una realtà messicana e non italiana.

Perciò, lascio che sia Gabriel a descrivervela:

«Avevo 28 anni quando fui chiamato a partecipare a un progetto del governo del Messico e della Universidad de las Américas Puebla che prevedeva un intervento di formazione in un carcere femminile.

È stato lì che ho conosciuto le carceri.

In Messico, il carcere è come un secchio della spazzatura. Un luogo dimenticato, abbandonato, tanto dal governo quanto dai familiari di chi vi entra.

Inoltre, non ci sono neppure cure. Una pasticca, la stessa, per tutto.

Altrettanto, dicasi per le malate psichiatriche detenute. Vengono rinchiuse in un luogo in fondo al carcere, sporco, invivibile e lì dimenticate.

Ho deciso di portare l’arte perché ha un potere curativo. In particolare, il teatro ha una forza terapeutica.

Ovviamente, non ho mai preteso di sostituirmi ai medici.

Infatti, l’equipe a supporto del mio lavoro è multidisciplinare e composta da sociologi, psicologi, ecc.

Il mio scopo è aprire un varco, offrire un’alternativa nell’interiorità di queste persone, ma anche all’interno del carcere.

Un’opportunità di scoprirsi internamente; ma anche scoprirsi con l’esterno. Questo lavoro risulta molto importante per queste persone.

Soprattutto, utilizzo il cinema come mezzo liberatorio, ma anche di comunicazione.

Infatti, esso può uscire dalle pareti del carcere a differenza del teatro che richiede una presenza fisica.

Inoltre, un video può essere anche visto fuori, può girare.

Per esempio, “Feliz cumpleaños”, quel video è importantissimo per la madre (il docu-video parla di una bambina che festeggia i suoi sei anni con la madre in carcere e sarà l’ultimo compleanno insieme, perché, poi, per legge messicana dovrà andarsene, n.d.r.) perché lei non ha foto della piccola, né saprà che fine farà sua figlia, potrebbe non rivederla mai più. Quando uscirà, avrà, almeno quel video».

Concludo, con l’invito di venire alla tavola rotonda di domani dove si parlerà ancora di Messico, per saperne di più; ma, anche, per apprezzare, davvero, appieno, la fortuna di vivere in un paese libero.

 

 

 

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