Funamboli – primo step: recensione allo spettacolo

FUNAMBOLI – PRIMO STEP

 

UNO SPETTACOLO DEVERBALIZZATO CHE NON CONVINCE

 

 

RECENSIONE ALLO SPETTACOLO

 

 

di Elisa Pedini

 

 

È andata in scena come data unica il 31 maggio 2023 la performance Funamboli – primo step con la regista e performer Aram Ghasemy che ha ufficialmente chiuso la stagione al Pacta Salone dei teatri di Milano.

Visto che, per fortuna, lo spettacolo non prevedeva repliche e speriamo non ci sia mai un “secondo step”, mi sono presa i miei tempi per scrivere questa critica.

Purtroppo, quando uno spettacolo lascia totalmente basiti, bisogna cercare di comprenderne le cause.

Per quanto mi sia sforzata di trovare delle spiegazioni a quanto visto e reperire un qualche messaggio, di fatto, Funamboli – primo step resta una performance che non convince per nulla.

Passo senza ulteriori indugi alla critica.

Il palcoscenico del Pacta è particolare e ne ho già abbondantemente parlato; ma proprio per la sua conformazione può risaltare in modo esponenziale l’arte attoriale, laddove essa ci sia, o purtroppo, diventare un’esperienza triste che probabilmente neppure Chatterton sarebbe riuscito a rendere più cimiteriale.

In questo caso, non c’è proprio tecnica attoriale perché gli attori non recitano.

Ma, andiamo con ordine.

Stranamente, sul palco c’è più roba del solito; ma nulla è significativo per lo spettatore che rimane totalmente estraneo ed estraniato dalla scena.

Infatti, ci si trova di fronte a un vecchio giocattolo, un vecchio proiettore, una vecchia bicicletta, pannelli e teli sul fondo; ma si resta lì a osservare, in attesa di capire cosa rappresentino; ma soprattutto, quale sia il messaggio.

Tuttavia, l’attesa è destinata a restare delusa perché le risposte non arriveranno mai e anzi, si giunge addirittura a provare fastidio.

Quindi, la scena non crea empatia col pubblico.

Sicuramente, Aram Ghasemy è dotata di una straordinaria capacità mimica; ma, purtroppo, non è sufficiente, né a creare empatia, né a coinvolgere il pubblico, né a riempire il palco, che, seppur mostra una scena allestita con numerosi oggetti (soprattutto per chi è abituato agli allestimenti minimal del Pacta) risulta desolantemente troppo grande e desolantemente troppo vuoto.

Inoltre, le luci sono troppo spesso basse, quando non c’è proprio il buio; ma soprattutto, risultano troppo spesso discostanti andando ad aggravare quel senso di distanza con il pubblico.

In più, non c’è compattezza, né fluidità nella regia col risultato che i due attori in scena risultino due entità avulse tra loro e quel che è peggio, totalmente avulse dal pubblico.

La performance si apre con una “nascita”. Un seme che germoglia? Un embrione che si forma? Personalmente, l’ho intepretato come un embrione.

Certo, c’è bravura in quel corpo che si fa espressione di qualcosa che nasce, tuttavia, tutto questo dovrebbe comunicare vita, dunque, gioia, ma, al contrario,  l’emozione che si prova è tristezza.

Poi, questa creatura cresce, o così si suppone. L’infanzia, i giochi, il ridere per nulla, i versi gridati.

Ecco, diciamo che, senza compartecipazione alcuna, però fin qui l’ho trovato noioso ma coerente. E il messaggio? Si nasce e si cresce?

Mi parrebbe un po’ riduttivo.

Il comunicato stampa di Funanboli – primo step faceva riferimento a metamorfosi nel corpo e nella mente, tanto naturali come la crescita, quanto indotte da circostanze esterne con domande pseudo-filosofiche che mi avevano comunque incuriosita.

Ecco, peccato che questo messaggio proprio non sia passato, come del resto nessun tipo messaggio.

Ma, andiamo avanti perché il bello deve ancora arrivare.

Come detto sopra: versi gridati.

Bene, ci stanno, fino ai tre anni di età, poi, no.

In generale, si sa che se si sceglie di ricorrere al grammelot o alla non-verbalizzazione, qui le tecniche utilizzate in teatro sono molteplici, a meno che non si sia Dario Fo, o qualche mostro sacro alla Gassman o alla Proietti, è altamente rischioso.

Soprattutto, il corpo deve divenire tutto linguaggio: nel gesto, nel respiro, nel ritmo. Non basta la mimica.

Quindi, figuriamoci quando si arriva a fare una scelta estrema qual è la deverbalizzazione, come è in Funamboli – primo step e la si protrae per un’intera performance.

Forse, si voleva sottendere una totale non-comunicabilità; ma l’interpretazione è del tutto mia perché nulla sul palco riconduceva a una mancanza di comunicazione visto che i due elementi in scena non interagivano tra loro; non erano neppure vicini.

Purtroppo, gridare versi per tutta la durata d’uno spettacolo, non solo non comunica proprio niente, ma finisce con lo stancare il pubblico, quando non infastidirlo e con l’estraniarlo definitivamente.

Infatti, l’apice lo si è toccato quando fastidiosi suoni che ricordavano la guerra hanno visto la creatura, ormai donna, o così ho supposto io, tirar fuori una specie di brocca con un liquido che aveva tutto l’aspetto di voler evocare il vino; ma voglio ben sperare intendessero la Cola e che sia io ad aver pensato male.

Comunque, la Ghasemy fingeva di bere e praticamente ci si lavava con questo liquido.

Dato che, come detto, lo spettacolo era deverbalizzato, i movimenti avrebbero dovuto avere un senso, comunicare in modo profondo; ma, no.

Non è quel che è avvenuto in Funamboli – primo step.

Purtroppo, ciò che s’è visto era più vicino ai protagonisti di qualche B-horror-moovie ambientato in un qualche manicomio surreale piuttosto che a qualcosa d’umanamente realistico.

A questo punto, la performer tornava a gridare versi come un’ossessa, rabbiosa, furiosa, contro chi non si sa, visto che l’altra presenza sul palco, un uomo, era praticamente inesistente, fatta salva qualche passeggiata per il palco di cui, a tutt’oggi, non so riportarvi il senso.

Sfortunatamente, l’interpretazione che ho dato sull’immediato è quella che mi continuo a dare oggi, nonostante l’averci pensato e ripensato sopra: ovvero, che fosse un tentativo mal riuscito di trasmettere il senso d’alienazione e violenza della guerra.

Tuttavia, nel darmi questa spiegazione a quanto stessi vedendo, non ho trovato un messaggio, al contrario, mi sono sentita totalmente basita.

Stavo per andarmene e non è mai successo in trent’anni di carriera.

Poi, ero lì per lavorare e il senso del dovere ha prevalso.

In particolare, perché ho pensato a voi, ai miei lettori e al servizio che rende un critico.

Morale: sono rimasta.

Mi sono sentita ferita, offesa nella mia umanità, sì, proprio nel mio essere “essere umano”.

Dal 2017, per lavoro, entro in contatto diretto con emigranti, profughi e rifugiati politici, non da ultimi dei ragazzini ucraini che ho avuto in classe proprio in questi mesi.

Queste persone non si alcolizzano, non gridano, non danno fuori da matto e non diventano psicopatici. Se sono bambini, nemmeno le loro famiglie fanno questo.

Anzi, una cosa li accomunava, li ha accomunati, li accomuna tutti: il silenzio.

L’anima straziata e frantumata grida, sì, ma è un grido muto il suo, perché il dolore atroce e lo strazio disumano hanno distrutto tutto, incluse le parole e le lacrime. Solo col silenzio e nel silenzio, il dolore trova il modo di “parlare” e la sua dignità. Solo il silenzio è in grado di sopportarne e supportarne il peso.

Si porta rispetto al dolore, alla dignità. Non li si riduce a una frase fatta da bar, o a un luogo comune qualunque. Inaccettabile.

Parafrasando le parole del pubblico uscente, non si va a teatro per sentirsi infastiditi e sorbirsi altro qualunquismo, come se non bastasse quanto già se ne sopporta quotidianamente.

Ecco, qui, mi dispiace, ma è scesa la ghigliottina morale sulla performance, già condannata di suo a livello tecnico.

Decisamente, Funamboli – primo step è sconsigliato.

 

 

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