PILLOLE DI: Italo Svevo

PILLOLE DI:

 

LETTERATURA ITALIANA

 

 

LA COSCIENZA DI ZENO

di Italo Svevo

 

LA COSCIENZA E LA RICERCA DISPERATA D’UN’IDENTITÀ E D’UN SENSO DELLA VITA OLTRE L’APPARENZA DELLA REALTÀ

 

 

di Elisa Pedini

 

 

Mai come per questo autore bisogna fare un passo indietro nel tempo e capire, innanzi tutto, l’uomo, Ettore.

Se ci disinteressiamo di Ettore, Italo non avrà alcun tipo d’interesse a farsi capire da noi e resterà lì, come una delle tante pagine stancamente e noiosamente ingurgitate sui banchi. A quelli un po’ più coscienziosi, forse, resterà il ricordo vago d’un titolo e d’un nome; a tutti gli altri, manco quello.

Quindi, Italo Svevo nasce all’anagrafe Ettore Schmitz, a Trieste, nel 1861.

Padre, ebreo tedesco e madre, triestina. Studia in Germania con la speranza d’un brillante futuro in campo commerciale, ma finisce a fare la grigia vita del bancario per diciott’anni e quindi, assume la direzione della fabbrica di vernici sottomarine di proprietà della famiglia della moglie.

A salvarlo, una passione che gli scorre nelle vene: quella dell’intelletto, della letteratura; ma di questo ne parliamo tra qualche riga.

Ora, è invece importante inquadrare il momento storico e sociale.

Trieste è sotto l’impero austro-ungarico, città prospera e solida, basata sulla borghesia commerciale e industriale e collegata alla civiltà mitteleuropea.

Ciò, fa di Trieste una città contraddittoria: per un verso, il mondo sociale e soprattutto quello intellettuale sono estranei alla vita culturale italiana, che fa i conti con i fermenti ma anche coi problemi d’una neo-unità; ma, per l’altro, Trieste si sente e vuol essere italiana e riverbera questo sentire proprio nel suo spirito patriottico irredentista.

Quindi, Ettore cresce all’interno d’una cultura e religione ebraica, seppur lui non sarà mai praticante; la sua formazione, tanto culturale quanto linguistica, è tedesca; è un cittadino austro-ungarico; ma spiritualmente, proprio come la sua Trieste, egli si sente italiano e dimostra il suo attaccamento all’Italia, patria spirituale, ma non ancora politica, collaborando proprio con un giornale irredentista: L’Indipendente.

Durante gli anni da bancario, Ettore si forma una cultura profondissima sugli autori classici italiani, s’appassiona di Shakespeare e s’infiamma per Shopenhauer e divora gli autori realisti francesi e russi.

Questa passione per la letteratura lo porta a scrivere per L’Indipendente.

Lo pseudonimo che si crea riverbera, appunto, il suo appartenere a due tradizioni culturali: quella italiana, Italo e quella germanica, Svevo.

I suoi primi romanzi sono un fiasco totale Una Vita (1892) e Senilità (1898) non vengono compresi e restano nella più profonda indifferenza di pubblico e critica. Il suo italiano è considerato contorto e la sua attenzione ai fatti piuttosto che all’eleganza stilistica gratuita sono considerati uno scrivere male.

In verità, Italo è precursore della letteratura d’analisi con l’attenzione all’uomo e ai suoi problemi e con la volontà di sezionarne senza scrupoli e senza pietà la coscienza per portarne fuori i meandri più oscuri, le finzioni, le ipocrisie, i fallimenti.

Per fare questo, Italo, mette in pagina Ettore.

Non si possono comprendere Italo in primis e poi, Alfonso, Emilio e soprattutto Zeno, se non si conosce come, dove e cosa ha vissuto Ettore.

Appunto, Italo non viene minimamente capito ed Ettore decide di smettere di scrivere.

Nonostante il suo lavoro d’imprenditore lo porti a viaggiare costantemente, è nella sua Trieste che Ettore conosce James Joyce, già molto famoso seppur non ancora autore dell’Ulysses ed è la svolta. Joyce trova il suo amico talentuoso e lo esorta a insistere.

Nel 1923, Italo Svevo pubblica La coscienza di Zeno.

Poco dopo, Joyce segnala l’opera di Svevo ai suoi amici francesi Larbaud e Crémieux che se ne fanno entusiasti diffusori.

In Italia, è Eugenio Montale che con il suo articolo Omaggio a Italo Svevo, pubblicato sulla rivista milanese L’Esame, lo consacra all’attenzione della critica.

Per l’esattezza, sono le due riviste più importanti del tempo: la torinese Il Baretti e la fiorentina Solaria a dare a Svevo la tanto agognata gloria.

Il critico che più di tutti inquadrò il lavoro di Svevo fu Giacomo Debenedetti che in un saggio del 1929 pose l’accento sul rapporto tra autobiografia e arte narrativa di Svevo, andando a mettere in evidenza lo stretto legame che lega tutti e tre i romanzi.

Infatti, La coscienza di Zeno si mostra come lo sbocco naturale dei due romanzi precedenti, non solo perché la materia autobiografica si fa più diretta e precisa; ma soprattutto perché il racconto si svolge in prima persona e lo scavo introspettivo profondo è autobiografia pura.

Il romanzo si presenta come una sorta di appunti, o memorie dell’analisi che Zeno ha condotto su stesso e sulla propria vita, su invito dello psicanalista che lo segue. A metà percorso, il protagonista interrompe la terapia e il medico, il dottor S., per vendetta, pubblica tali appunti.

La struttura del romanzo è divisa in sei episodi che si mostrano come veri e propri blocchi narrativi e il racconto spazia, dunque, liberamente tra passato e presente, spezzando la successione cronologica degli eventi.

Proustianamente, è un tempo della coscienza, della memoria e non un tempo fisico.

Zeno si sente «malato», è l’inetto per antonomasia.

La frattura uomo/realtà non può più essere colmata e diviene lacerazione interiore tra i sogni dell’anima e la volontà che s’è spezzata e non risponde più.

L’uomo può darsi mille scuse, raccontarsi mille menzogne per giustificare la sua inadeguatezza, come fa, di fatto, Zeno, ma l’inettitudine è il solo fatto concreto che rende ancor più tragica la resa dei conti.

Infine, Zeno porta a compimento quello scavo interiore, principiato in terza persona con Alfonso Nitti, il bancario oppresso, soffocato e deluso e proseguito nella senilità spirituale di quell’essere abulico, velleitario e privo di spina dorsale che è Emilio Brentani.

Zeno, attraverso la coscienza tenta di superare tutte le debolezze della volontà, illuminando gli anfratti dell’inconscio.

La forte ironia alleggerisce i toni, ma ben si guarda dal togliere il senso d’angoscia profonda della coscienza conferendole la dimensione della tragedia dello stesso vivere.

Per Italo Svevo, la vita è una malattia con inequivocabile sentenza di morte finale.

Una malattia inguaribile, dunque, perché non fisica, ma della coscienza, che si strazia nel percepire la finzione che gli esseri umani usano con loro stessi e reciprocamente gli uni con gli altri, nelle maglie d’una società che è, pertanto, tutta malata, ma dalla quale è impossibile prescindere.

 

 

 

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