Lezioni di Linguistica: filologia romanza

Rubrica a cura di: Prof.ssa Elisa Christina Anna Pedini-Pelzer

Docente presso il Dipartimento di lingue e linguistica e il Dipartimento di Business&Management

 

 

 

LEZIONI DI LINGUISTICA:

 

FILOLOGIA ROMANZA

 

 

«Imago animi sermo est: qualis vita, talis oratio»

Seneca

 

 

Inutile sottolineare che Seneca avesse, naturalmente, ragione.

Da cui, se il linguaggio è lo specchio della mente, allora, per estensione più si conosce l’origine della nostra lingua e più comprenderemo il nostro stesso essere popolo.

Nulla è più incantevole di scoprire come una lingua, viva, evolva, influenzi le altre e da esse venga influenzata.

Per chi non lo sapesse, sono glottologa e oggi voglio parlarvi d’una video-class appena cominciata.

Per me, la massima goduria estrema: filologia romanza.

Ciò che maggiormente mi soddisfa, è che, quando mi chiedono un corso di linguistica, o filologia, romanza o germanica che sia, di solito, è perché c’è qualche esame in vista, la data s’avvicina inesorabile e la consapevolezza di non averci capito una pippa, diviene panico totale.

In verità, tutti gli studenti che ho seguito in questi percorsi, hanno un massimo comun denominatore: la noia.

Pensano che siano materie “morte” come lo sono le lingue latina, greca e indoeuropea.

Non è così, né sono esse lingue morte.

La trasformazione fa parte di ciò che vive. È così che la vita continua e sconfigge la morte.

Dunque, se non si comprende il principio di tale trasformazione, non si comprenderà mai come ciò che è morto solo per convenzione, continui in realtà a essere e a divenire, piacenti o no.

Alla fine del corso, gli stessi annoiati studenti finiscono per amare la filologia più di me.

In altri termini, creo dei mostri!

Per esempio, prendiamo il titolo di questo articolo. Banale, direte voi, è il nome della materia?!

Il linguista vi dice, no. Il titolo parla dell’evoluzione della mente umana e del linguaggio.

“Filologia” deriva (simboletto del linguista è il seguente: <) dal greco “filólogos”.

Ovvero:

filólogos < filo (phileîn= amare) + logos (parola/conversare)

Facilmente deducibile che il suo significato sia: «amante della parola/del conversare»

Fino a qui, in molti alzerete il sopracciglio, pensando, ecco, scoperta dell’acqua calda.

Già, perché voi pensate con la testa dell’uomo contemporaneo e così intendete quant’ho scritto.

Tuttavia, all’inizio, io ho scritto che il linguaggio è lo specchio dell’anima/mente del popolo che parla quella determinata lingua.

Da ciò ne consegue che non è con questa testa che dovete pensare; ma tornare indietro nel tempo, al 500 A.C. e pensare come avrebbe pensato un greco, mentre girava per le brulicanti strade d’una fiorente Atene, culla di cultura, ricchezza e menti sublimi.

Ecco, per quell’uomo greco l’«amare il conversare» equivale a “ciarlare”, “parlare troppo”.

L’«amante del conversare» è un perdigiorno che chiacchiera invece di fare.

L’accezione è fortemente ironica, se non negativa.

Con Platone, ma siamo già nel 407 A.C., presumibile data d’incontro con Socrate, il termine “logos” acquisisce sempre più il senso di “parola” e il “filólogos” s’avvicina sempre più al senso d’«amante della parola».

Infatti, nel 395 A.C. inizia a scrivere i suoi dialoghi, perché in essi vede la vera forza del pensiero, della filosofia.

Nel 387 A.C. fonda, ad Atene sempre, la sua Accademia, basata sulla scienza e sul metodo che da essa deriva: la dialettica. L’insegnamento si fonda sui dibattiti.

Da Aristotele in poi, il “filólogos” non è più solo colui che ama la parola; ma è anche colui che la studia attraverso la letteratura.

Siamo ormai nel 250 A.C. circa, quando Erastotene di Cirene, intellettuale incredibilmente versatile, si definisce per la prima volta “Filólogos”.

Durante il periodo alessandrino la filologia si sviluppa come studio, come scienza.

Tuttavia, è nel I secolo A.C., nel mondo romano, che la filologia prende forza, identità e vigore con Marco Terenzio Varrone.

Ora, veniamo a “romanza”.

Romanza < romanice = avverbio significante “romanamente/al modo dei romani”

Tale avverbio veniva usato nell’espressione “romanice parabolare” giustapposta al “latine loqui”.

Roma. La capitale dell’Impero. Roma, dove tutti avrebbero voluto vivere. Romani, come tutti avrebbero voluto essere.

Il latino, quello vero, era appannaggio di Roma e dei romani. Ciò significa che veniva parlato entro i confini del Tevere.

Mi piace, ora, farvi riflettere su un aspetto importantissimo: Roma è stato in assoluto l’Impero più longevo e più esteso. Una caratteristica, sopra a tutte, ne ha determinato la grandezza, che nessuno ha mai eguagliato, né prima, né poi: Roma annetteva, non sottometteva. Roma rispettava usanze, religioni, lingue. Il greco e l’etrusco venivano regolarmente insegnati in piazze pubbliche, tanto per capirci. Il latino era appannaggio dei romani.

Il desiderio d’impararlo e di parlarlo era degli annessi, per rispetto e per necessità, non era imposto da Roma.

Ergo, il “romanice parabolare”, ovvero il “parlare alla maniera dei romani”, si contrapponeva al “latine loqui”, ovvero, a chi il latino lo parlava sul serio. Segno distintivo.

Successivamente, com’è comprensibile, il “romanice parabolare”, ben più semplificato dei difficili costrutti della grammatica latina, finì per diventare il “vernacolo” anche delle classi meno colte e via, via, sostituì il latino puro.

Ma, vediamo come si è arrivati a “romanza” da “romanice”.

La prima a saltare è la vocale desinenziale finale “e”, che comporta la sincope della vocale postonica in parola proparossitona, quindi, di fatto abbiamo:

Ro – mà (vocale tonica) – ni (sincope della postonica)- ce (caduta della vocale desinenziale)

A questo punto ci resta una cosa impronunciabile come questa:

Ro – mà – NC

Quel “-NC” si definisce nesso consonantico secondario.

L’occlusiva sorda finale tende nelle lingue romanze orientali a sonorizzare in fricativa o al dileguo, da cui:

C > Z → ant.fr.: romanz → FR: roman (dileguo)

→ ITA: romanzo/a/i (affricata sonora+desinenza genere/numero)

In conclusione, non esiste niente di più bello della filologia romanza.

Ovvero, lo scoprire come una parola latina si sia semplicemente trasformata per continuare a vivere, fino a oggi, fino a noi e non esiste niente di più esaltante (e divertente) di sapere cosa, come e perché quella parola si sia trasformata.

 

 

 

 

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